Mercato

La filiera di trasformazione del luppolo nel nostro Paese: un progetto in via di sviluppo

Uno dei principali obiettivi che hanno deciso di prefiggersi gli addetti ai lavori del settore brassicolo artigianale italiano è dunque la realizzazione di un prodotto che possa arrivare a contenere materie prime nostrane al 100%. Per raggiungerlo, oggi il dibattito è sicuramente incentrato sulla necessità di creare una filiera di trasformazione di luppoli selvatici, nati e cresciuti sul nostro territorio, situato proprio al centro della zona ideale per la loro maturazione. Dalla coltivazione e produzione dunque, sino ad arrivare alla trasformazione ed alla successiva commercializzazione. Con la continua espansione del fenomeno “Craft”, anche le istituzioni regionali e nazionali si stanno convincendo che investire risorse in questo settore potrebbe non risultare così azzardato. Sotto la guida del CREA (“Consiglio per la Ricerca in Agricoltura e Analisi dell’Economia Agraria”), il principale Ente di ricerca italiano dedicato all’agroalimentare, si sta dunque cercando di sviluppare un programma che possa permettere di giungere ad immettere sul mercato varietà selezionate autoctone di luppolo, che potrebbero rappresentare il vero fiore all’occhiello di questo ambizioso progetto.

 

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Secondo gli esperti del settore, ottenere un prodotto in grado di svolgere degnamente le sue funzioni amaricanti e aromatizzanti non è un’utopia anzi, è un risultato assolutamente raggiungibile. Si stima che il fabbisogno di luppolo in Italia si attesti intorno alle 3.500 tonnellate annue, a fronte di una superficie coltivata stimata attorno ai 50 ettari, quasi totalmente con varietà provenienti dai paesi esteri. L’area in cui si concentrano le attuali coltivazioni comprende Lombardia, Veneto, Lazio, Emilia Romagna ed Abruzzo. Necessitando di specifiche tecniche colturali, una corretta gestione dell’irrigazione, degli interventi fitosanitari, nonché delle strutture di sostegno necessarie al suo corretto sviluppo, non risulta semplice l’organizzazione di questa attività che è invece parecchio articolata. Per non parlare di tutti gli aspetti post-raccolta, partendo dalla necessità di attrezzature e spazi adatti allo stoccaggio, essiccazione e conservazione dei fiori. Il luppolo ha però una potenzialità di alta resa economica ad ettaro, dunque una progettazione innovativa della sua filiera di produzione potrebbe assicurare una riduzione dei costi utile a  garantire un’alta redditività alle aziende e una decisiva competitività del prodotto sul mercato globale, dovuta come già detto alle caratteristiche che potrebbe essere in grado di possedere. Per garantire il raggiungimento degli obiettivi prefissati sono state coinvolte professionalità e competenze diversificate, che spaziano dalla genetica alla meccanizzazione, dalla difesa fitosanitaria agli aspetti qualitativi delle produzioni, fino alle analisi degli aspetti economico-strutturali della filiera.

 

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La rete cooperativa predisposta dal CREA è composta da 10 strutture dislocate in tutta Italia, che formeranno il network alla base dell’intero progetto. Si pone l’obiettivo di “migliorare sostenibilità e competitività dei birrifici artigianali attraverso il miglioramento qualitativo delle materie prime, principalmente del luppolo, da impiegare nella produzione di birre artigianali 100% Made in Italy”. Al momento, in Italia si importano 3672 tonnellate all’anno di luppolo secco, soprattutto da Germania (per circa il 90 %), Polonia, Repubblica Ceca, Slovenia, Belgio, Inghilterra, USA e Nuova Zelanda, il cui costo oscilla tra gli 8 ed i 40 euro/kg, fino ad arrivare agli 80 euro/kg per alcune varietà neozelandesi. Tuttavia, a seguito del ddl n. 212/2010, che definisce la birra «prodotto agricolo», si è registrato un grande interesse verso la realizzazione di birre prodotte con materie prime locali. La volontà di giungere ad una produzione 100% made in Italy e la nuova tendenza a produrre birre artigianali con luppolo fresco ha aumentato l’interesse degli agricoltori per questa filiera.

 

La raccolta.

La raccolta del luppolo in Italia avviene generalmente una volta l’anno tra i mesi di Agosto e Settembre, in quanto il grado di maturazione dipende dalla varietà coltivata e può influire sulla quantità di alfa e beta acidi contenuti dai coni. Brattee chiuse e consistenza tendente al cartaceo sono due ulteriori indici del fatto che sia giunto il momento della raccolta. Il colore tende al verde e si può inoltre notare la presenza di luppolina al loro interno. I metodi di raccolta possono essere diversi, a seconda del livello di meccanizzazione di cui si dispone. Alcune strumentazioni sono in grado di agevolare questo lavoro, mentre altre, più complesse, sono in grado di svolgere le operazioni di separazione dei coni dalla parte vegetale, l’essiccazione ed ancora il confezionamento. Nel nostro Paese non esistono ancora macchine in grado di sostituire il lavoro manuale dell’uomo, anche se il Birrificio Baladin, in collaborazione con Antonello Musso dell’azienda agricola “Birra Frè” ed il contributo delle Officine Conterno di Piozzo, ha tentato di realizzarne un primo prototipo: la “Baladin hop machine”. Consente di separare i fiori dalla pianta direttamente sul campo, risparmiando tempo, migliorando i costi e soprattutto garantendo una migliore qualità del prodotto. Il cono deve rimanere integro mentre viene raccolto, il che implica porre particolare attenzione ad evitare la compressione dei coni e l’eccessivo intrecciamento tra i fusti.

L’essiccazione.

Per far sì che possa essere conservato nelle migliori condizioni possibili, il luppolo va per prima cosa essiccato. Il parametro principale preso in considerazione per procedere con questa operazione è il raggiungimento del 23% di sostanza secca nel cono al momento della raccolta. Giunti a questo punto, i coni passano in camere di essiccazione, all’interno delle quali viene soffiata aria calda a 50-70° C, che andrà ad eliminare l’umidità in eccesso. Una temperatura superiore a quella indicata, porterebbe infatti a variazioni dei parametri chimici del luppolo, andando così ad influire sulle caratteristiche del prodotto finito in cui verrà utilizzato. La durata del processo si aggira intorno alle 6-12 ore, ma può subire variazioni a seconda delle condizioni iniziali in cui si trovava il luppolo e le temperature alle quali avviene l’essiccazione, e termina nel momento in cui si raggiunge una percentuale di umidità del cono compresa tra il 7 ed il 12 %. All’essiccazione seguirà infine il processo di condizionamento, utile ad uniformare il livello di umidità nei coni. Si raggiunge solitamente il 10% di umidità e si procede dunque al confezionamento. Se la percentuale di umidità risulta essere inferiore di andrà incontro al rischio di disintegrazione dei coni, in caso contrario, se troppo alta, si rischia un eccessivo prolungarsi dei processi ossidativi anche in fase post-confezionamento.

 

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Il confezionamento e la conservazione.

Una volta essiccato, il luppolo dovrà dunque essere confezionato sottovuoto in buste di alluminio e possibilmente conservato in magazzini a temperatura controllata (3/5° C), in modo da mantenere il più possibile inalterate le proprietà organolettiche. Sono stati individuati infatti 4 nemici in grado di influire negativamente sul luppolo una volta raccolto: l’ossigeno, il tempo, la temperatura e la luce. L’ossidazione porta alla formazione di aromi sgradevoli ed impedisce agli alfa acidi di esercitare il loro potere amaricante: ecco perché viene utilizzata la conservazione sottovuoto, a basse temperature, capaci di dimezzare il tasso di deterioramento del prodotto una volta confezionato. Se ben conservato, il luppolo può arrivare a mantenere quasi intatte le sue caratteristiche anche fino ad un anno. Le modalità di conservazione possono tuttavia variare anche a seconda del tipo di varietà con cui si ha a che fare. Alcune si conservano bene anche a temperatura ambiente, altre si ossidano nonostante la conservazione a 3/5° C. Altre cause possono essere la non corretta temperatura mantenuta in fase di essiccazione o un’umidità residua che al termine del processo risulta essere inferiore al 7%. Una percentuale di umidità residua troppo alta in seguito all’essiccazione (superiore al 12%), può invece provocare un protrarsi dell’attività microbiologica, una maggiore facilità di decadimento, e pericolo di autocombustione.

 

La certificazione.

Un ultimo passo separa a questo punto il luppolo italiano dalla messa in commercio: la certificazione del prodotto ottenuto. Nei Paesi esteri, quali ad esempio Germania o Stati Uniti, questo documento va apposto su ogni confezione e deve contenere le seguenti indicazioni: descrizione del contenuto, numero di certificazione, data di scadenza, regione di provenienza del prodotto, anno di raccolta, varietà, data e luogo della lavorazione del prodotto. “La normativa europea sull’Organizzazione Comune dei Mercati (OCM), ossia il regolamento (UE) n. 1308/2013, prevede all’art. 77 che il luppolo raccolto ed i suoi prodotti ottenuti nell’Unione Europea, siano certificati per garantirne le caratteristiche qualitative. Solo la certificazione permette la commercializzazione o l’esportazione di questi prodotti. La
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certificazione non è richiesta nel caso in cui il birrificio contrattualizzi la produzione direttamente con il produttore. L’attività per la certificazione del luppolo è disciplinata dal regolamento (UE) n. 1850/2006. In base a tale regolamento ogni Stato membro riconosce una Autorità di certificazione, incaricata di effettuare la certificazione del luppolo, anche mediante Centri di certificazione riconosciuti e periodicamente verificati”. Recentemente, anche in Italia si sta arrivando alla nomina di un ente certificatore del luppolo coltivato sul nostro territorio. Grazie al Decreto del MIPAAF n°4281 del 20/07/2015, è stata identificata nella Direzione Generale delle Politiche Internazionali e dell’Unione Europea (PIUE), l’Autorità di certificazione competente per l’Italia ai sensi del regolamento CE 1850/2006. Attualmente l’unico Centro di certificazione riconosciuto è il Dipartimento di scienze degli alimenti presso l’Università di Parma. Questo il quadro della situazione attuale; il progetto sembra dunque essere ben avviato anche se, come si è avuto modo di constatare, manca ancora qualche tassello al posto giusto per poter parlare di una filiera del luppolo italiano attiva e produttiva a 360°. Ma l’ottimismo e la voglia di riuscire in questo progetto certo non mancano

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